29.06.2019 \\ 07.09.2019
LA CATASTROFE BENEFICA DELL’ARTE
La posizione fondante dell’arte di Jimmie Durham, artista cherokee e dunque nativo americano, è il nomadismo, il continuo spostamento verso il proprio confine, verso l’inevitabile frattura di ogni equilibrio del linguaggio. E questo avviene attraverso la differenza dell’opera, che si rifiuta di omologarsi con le altre opere e vive la condizione solitaria della propria superba discontinuità.
Il tempo rapace, di Hölderlin, rapina nel suo vortice le cose e le dissemina ai piedi dell’angelo della storia, sbigottito davanti a tanta maceria. Soltanto l’arte può arrestare tali sprofondamenti, soltanto l’angelo dell’arte può resistere allo sfaldamento e creare un alveo, un cuneo che si insinua tra i frammenti e fonda una persistenza, una resistenza ed un armistizio. Ma questo non significa paralisi o nascondimento, non significa balsamo o phàrmakon, bensì rispondere al dissolvimento polveroso ed anonimo del quotidiano con una accelerazione ancora più eclatante.
Il movimento dell’arte è quello della catastrofe, esaltazione e intensificazione del tempo semplice, quello che accompagna la realtà quotidiana verso il proprio decesso. Perché soltanto per l’arte esiste la morte, per il quotidiano esistono mille decessi, sempre diversi e mai esemplari. L’esemplarità è costitutiva del linguaggio dell’arte e della sua natura. Essa dispone e si dispone in modo da accogliere dentro e sopra di sé il gravame del tempo, contenendolo proprio in forza della sua esemplarità e riuscendo nello stesso tempo a conservarne l’essenza.
Il momento baluginante dell’esemplarità, quello inoppugnabile ed irriducibile della presenza lampante dell’arte, non è certo programmabile o prevedibile. È invece un inciampo che aiuta l’artista a precipitare e stramazzare meglio al suolo. Il linguaggio contiene dentro la propria pelle lo spessore di un tempo totale, quello della nascita, dello sviluppo e della morte, che non vive separato ma abita compattamente l’opera nella continuità di una presenza flagrante ed istantanea.
Poetare: “la più innocente di tutte le faccende”, sembra affermare Jimmie Durham, con la sua opera “Something… Perhaps a Fugue or an Elegy” (2005).
L’opera testimonia la posizione dell’arte e dell’artista, portati ad orientarsi mediante una grazia innata che confina con l’innocenza e la perizia. Fare l’arte significa partire dalla coscienza della propria opulenza, dall’idea che all’uomo è stato dato il bene del linguaggio, la preziosità di un attrezzo che suona la nota interiore. Il linguaggio è lo strumento della leggerezza e dello sprofondamento, mai messo in una unica direzione, sempre aperto al movimento e allo scambio.
Opulenza significa anche eccedenza rispetto al patrimonio comune, significa gestire un bene che riesce a fondare la possibilità doppia, quella di porsi contemporaneamente come riparo e come pericolo, come accrescimento e come perdita imminente. Perché l’artista opera con l’inciampo dei piedi, e la vista rivolta all’indentro. Il linguaggio non si può mai cancellare, non può tornare sui propri passi, e dunque costituisce un pericolo perché mette a repentaglio nella sua irripetibilità il grande bene, il potere di affermare e parlare l’esistente.
L’arte è la capacità di mettere in circolo il linguaggio, di modellarlo a caldo secondo l’impulso dello scambio. Esso nasce dalla naturale predisposizione del linguaggio di porsi in una inclinazione dolce, quella di alzare il tono della voce, di parlare fuori dalle cure del quotidiano, magari nominando gli dei, le forze che sono disposte sotto e sopra di noi, sostegno ed incombenza gravosa da sopportare e da rispettare. Gli dei probabilmente portano ironia verso la creazione dell’arte, in quanto sentono minacciato il potere divino della creazione.
Ma l’arte non ha invidia per gli dei, presa dal desiderio di tenersi dentro la sensualità di un linguaggio che non lascia mai la terra ma si impasta in essa per poi innalzarsi. Che cosa sanno gli dei del mondo, visto che lo guardano sempre dall’alto? Come fanno a sospettare il nostro reale se sono falsati e condannati a una eterna felicità? Per questo l’angelo della storia, quello di Benjamin, ha la bocca spalancata, come il serpente di “Un momento tranquillo” (1991-2007): è la meraviglia a spalancargliela. Egli scopre la landa di rovine che si accumulano davanti al suo sguardo senza sosta.
Gli dei sono condannati a volare sempre alto, lontano dalla pena e vicino alla ebbrezza, lontano dalla materia e vicino all’impalpabile. Soltanto nella materia, dentro la sua densa viscosità è possibile attestare il tempo totale, sentire il pericolo di una perdita che può annullare l’ottusa felicità degli dei: troppo garantita è la sua pratica, in un empireo senza tempo e senza voci. Invece dentro il tempo del mondo l’arte vive la sua peripezia ed insieme la schiva. Essa nasce tra mille richiami e molti allertamenti, all’incrocio tra la sosta e la rincorsa.
Nell’incastro dei due momenti, nell’impasto tra interno ed esterno, l’arte parla un linguaggio che sfugge alla solitudine, alla vertigine degli dei da cui non arriva nessuna eco. Invece la lingua dell’arte è sempre biforcuta, parla intorno a sé, stabilendo contatti e comprensione. Perché l’arte vuole commuovere, farsi accogliere nel mondo, coniugare alla lettera il verbo: muoversi contemporaneamente, insieme al moto incessante che regola le cose. Se gli dei tendono ad una parlata inascoltabile ed incomprensibile, l’arte invece si dispone in circolo al livello della terra per recitare il proprio ritmo. Vedi “Bajo el Volcan” (1991-2007).
Da quando siamo un colloquio è possibile ristabilire il circuito, mettere in circuito la bellezza, disporla in maniera che la sua comunicazione avvenga senza intoppi, nel piacere del suo artefice e nello stupore ammirato dei suoi visitatori. L’arte ristabilisce il flusso e la comprensione, la parola ed il suo ascolto. La felicità del circolo predicata da Nietzsche, mette fine alla felicità tutta verticale degli dei, che godono della distanza presa rispetto alla terra. L’arte procura il disagio di una diversa felicità, tutta giocata nel suo aleggiare sempre sulle stesse rovine, quelle terrene.
“L’incontro tra uomo e uomo è una tragedia potenziale” (Ortega y Gasset). L’arte opera proprio contro tale principio, tenta non di lenire ma di accelerare il senso tragico mediante il piacere di un’opera che porta dentro di sé i cicli di molte avventure e peripezie. La potenzialità tragica si sviluppa nella comunicazione, nell’attualità di un colloquio che si svolge partendo dall’intensità dell’opera d’arte, dal luogo di massima accelerazione e massimo rallentamento del sentimento tragico.
L’opulenza dell’arte consiste proprio in questo, nell’esuberanza di un sentire che non si arresta davanti ad alcuna economia, nemmeno se è quella della perdita.
Non ho mai sentito parlare di un dio perduto o perdente, ma sempre trionfante e prevaricante. L’arte corre su tutti i sentieri senza l’opportunismo della meta da raggiungere, si inerpica su ogni ostacolo prendendolo di contropiede con lo slancio di una rincorsa lunghissima. Poi si lascia scivolare sulle pendici delle cose, senza badare a spese, forzando l’inerzia di una bellezza che qualche volta cerca di restare confinata nel proprio riserbo: “You Cannot Book a Judge Under Cover” (2006).
Le mille frecce del linguaggio partono in tutte le direzioni, innescandosi nel cuore di cose lontane, stabilendo relazioni mobili e durature. L’arte assume l’iconografia di un San Sebastiano che parte dal proprio corpo, dall’amata materia, per sfilarsi da solo le frecce da dosso e lanciarle a piene mani, con molta generosità. La punta stabilisce la direzione del desiderio di agganciare la meraviglia del mondo.
L’arte pratica il corpo a corpo, la lotta del colloquio, il passaggio di parola che dovrebbe tenere tutti all’erta.
Per fare questo è necessario applicarsi, scegliere forme e colori che creino fascinazione, quella ammirazione che piega la rigidità delle cose e le spinge a girare il capo. L’opera si immerge nella materia per risalire il corso e la profondità delle rovine, circola liberamente nel passato, nel presente e anche nel futuro mediante una spinta che sconfigge ogni legge di gravità e di progressione temporale. L’arte finalmente smette il proprio splendido isolamento, scende in mezzo alla materia, vi sale sopra le spalle, che poi significa effettivamente che siamo un colloquio.
Ma quale ritratto del mondo fa l’arte? Quale tipo di occhio applica per guardare e guardarsi?
C’è una disputa tra Zeusi e Parrasio, una gara sulla perfezione ed abilità dell’arte di ritrarre le cose. Zeusi dipinge un grappolo d’uva, così perfettamente ingannevole da attrarre verso il dipinto alcuni uccelli che vanno a beccare i chicchi. Parrasio dipinge un velo con tale perfezione che Zeusi tenta di sollevarlo per vedere cosa vi è stato dipinto sotto. Entrambe le prove tendono a tenere la rappresentazione sotto il segno della mimesi.
Un altro mito racconta di Zeusi che vuole dipingere un ritratto della Bellezza, di Elena di Troia. Senza servirsi di alcuna modella, senza partire dalla realtà, Zeusi ritrae particolari di varie donne, realizzando un’immagine della bellezza composita e mentale, corrispondente ad un ideale astratto. Ora l’arte non vuole ingannare il mondo, non vuole contraffare le cose mediante la finzione di un linguaggio-scimmia. Perché possiede una persistenza, la permanenza di una temporalità che sfugge invece alle cose quotidiane, come nell’opera “Head” (2006).
Il tempo diventa un grumo esplosivo che pure conserva il trasecolare, l’apparire ed il trascorrere tipici dei fuochi d’artificio. “I fuochi d’artificio sono apparition cat’exochén (per eccellenza): manifestazione empirica, liberata dal peso dell’empiria (che è il peso della durata), segno del cielo e prodotto del tempo stesso, premonizione, scrittura sorgente in un lampo e scomparente che tuttavia non si lascia leggere per ciò che significa” (T.W. Adorno, Arte ed Apparenza).
La catastrofe dell’arte non rassomiglia al semplice disastro del tempo che passa, non scimmiotta la tragedia potenziale, semmai opera sulla potenzialità per sviluppare un movimento che la individua e la separa in una immagine estraniata ed estraniante. Se la rovina produce uno stato d’animo negativo, l’opera d’arte invece produce stupore. Il thaumàzein, lo stupirsi, è la condizione della contemplazione estetica davanti ad una diversa realtà, intensificata dall’introduzione di un elemento estraneo alle cose. “In ogni opera d’arte genuina appare qualcosa che non c’è” (T.W. Adorno) come dimostra Jimmie Durham con “Elephant Skull Study #2” (2012).
La fugacità dell’immagine impedisce che l’arte possa soffermarsi a fare il ritratto fedele del mondo. Come il fuoco d’artificio, tende a penetrare nello sguardo mediante l’esplosione improvvisa di forme e colori che si distribuiscono nell’opera secondo una dinamica interna. Che non significa improvvisazione, ma capacità calibrata dell’arte di darsi epifanicamente come sorpresa che porta lo sguardo ad inciampare dentro l’opera e a stupirlo mediante un’immagine che fa sospettare il mondo esterno e nello stesso tempo lo supera di slancio.
L’opera d’arte rifiuta la puntigliosità descrittiva di Zeusi e Parrasio ed anche il concettualismo di Zeusi, per accedere a una diversa condizione dell’opera, fatta di una materia che non cade al suolo ma contiene tutto il suo peso gravitazionale. La sorpresa nasce dalla capacità estraniante dell’arte che riesce a superare l’attesa, a mettere in scacco il mondo circostante, quanto a superba catastrofe ed intensa epifania. Davanti all’arte tutte le bocche si spalancano e l’ironia degli dei tace.
Lo stupore nasce dal fatto che l’arte ingenera sospetto intorno a sé, per i rimandi e per la perentorietà con la quale si chiude in circolo: un movimento in sosta sembra essere la sua sostanza.
L’opera è un balzo agli occhi, un restare acquattata nello stesso tempo nella propria cornice. È la lingua biforcuta dell’arte una intenzione indeterminata. L’opera si accende sotto lo sguardo, seguendo le intermittenze di un respiro che non appartiene né a chi sta con gli occhi bene aperti e né a chi se li tiene chiusi o ben stretti in tasca, come i sognatori.
L’arte non è sogno e nemmeno stato febbrile di veglia di chi si affaccenda intorno. È inutile vegliare. L’arte occupa lo spazio intermedio, l’interstizio tra i due momenti. L’artista è giustamente volubile: egli insegue la possibilità di cogliere al volo, con la perizia che soltanto la manualità usuale gli consente, il momento in cui confluiscono movimento e stasi, dove va a sistemarsi l’immagine, la possibilità del linguaggio di darsi come rappresentazione. Come accade con “In the interest of science” (2012).
L’epifania dell’arte, il suo valore, consiste nella qualità di darsi come apparizione e svelamento, come un improvviso accecamento che prende agli occhi e li fa roteare all’interno. L’arte gira le pupille all’interno di chi guarda, tende a porsi come sguardo rivolto verso l’interiorità. Perché questo avvenga, è necessario che l’opera sia fatta ad arte, che riesca nella sua esecuzione a manifestare come istantaneità concentrata il lavorio moltiplicato del tempo ed il suo precipitare, come un fuoco d’artificio che si innalza, solca il cielo e poi si dissolve puntando verso la terra.
La mano dell’artista contiene dentro di sé lo spazio e la forza di far esplodere tali fuochi, di accendere nel teatro dell’opera una rappresentazione senza fine, interminabile ed anche senza finalità, se non quella di procurare e produrre una prospettiva di piacere, una deriva di puro andare che trova dentro la propria illuminazione la possibilità di riconoscere all’arte il potere di rendere permanente ciò che sembra invece trasecolare e passare.
È tempo di riparlare di poesia, di lasciarsi succhiare ed affascinare dall’arte, accettando di commuoversi con essa, di muoversi insieme al suo movimento. La poesia è il luogo dove avviene felicemente lo scontro, dove l’opera e lo sguardo trovano il punto di armistizio, di scontro frenato. Davanti all’arte, alle opere fatte ad arte, anche gli dei si affrettano a scendere dall’empireo e a calare direttamente sopra una inimmaginabile catastrofe, non contemplata dall’ordine e disordine delle cose.
Lo stupore dunque non è sentimento che colpisce soltanto l’uomo ma tocca tutti quelli che guardano l’arte e riconoscono che in natura non esiste nulla di simile.
Achille Bonito Oliva
Tutte le immagini Courtesy Fondazione Morra Greco, Napoli
© Maurizio Esposito